Care socie e cari soci,
immagino che, come me, anche voi stiate seguendo in un’alternanza di sconcerto, disgusto, sconforto e preoccupazione i fatti di cronaca giudiziaria sugli ampi fenomeni di mafia e corruzione che hanno riguardato la gestione degli appalti pubblici a Roma, purtroppo proprio in quel comparto di servizi pubblici e welfare in cui operano le cooperative di tipo “A” e di tipo “B”. È il nostro settore, il nostro mondo, questa volta non si può proprio fare finta di nulla: lo scandalo ha toccato anche noi. Intendiamoci, prima o poi doveva capitare in un mercato come il nostro che ancora per il 90% campa di commesse pubbliche, e in fondo ciascuno di noi coltivava il sospetto del marcio che sta emergendo. Il tanfo, diciamolo, si sentiva da parecchio. Solo personalmente non mi aspettavo che il sistema di corruzione fosse così ampio, ramificato e trasversale. Soprattutto, ed è quel che più mi addolora, non mi aspettavo che un mercato da fame come quello dei trasferimenti per pubblici servizi e welfare, dove non ce n’è abbastanza per fare le cose legalmente, potesse attrarre appetiti criminali e sostenere sistemi di spartizione illecita di questa portata. Delle molte intercettazioni pubblicate, ce n’è una che mi colpisce particolarmente. È di Carminati, che in un insolito guizzo di immaginazione poetica così si esprime: «È la teoria del mondo di mezzo, compà. Ce stanno…come se dice…i vivi sopra e i morti sotto, e noi stamo ner mezzo. E allora vor di’ che ce sta un mondo in mezzo, in cui tutti se incontrano». Curioso, l’altra sera dialogando con Ignazio Punzi di sviluppo comunitario, dicevamo più o meno la stessa cosa: bisogna concentrare lo sforzo sulla terra di mezzo, che è il luogo dello scambio e della transizione. Solo che noi parlavamo del ceto medio, luogo di mobilità e incroci di classi e gruppi, da cui si passa per salire o più spesso per scendere la scala sociale; Carminati parlava invece di loro e della loro cricca, della funzione cerniera che hanno esercitato, mettendo in connessione se non saldando insieme gli interessi del ceto politico imprenditoriale e del sottobosco criminale.
Perché vi scrivo? Perché in un certo senso sento che vi dobbiamo e vi debbo delle scuse. Forse c’era della ingenuità, se non della millanteria, nella ripetuta proposta di formazione, di confronto, di sviluppo professionale; nell’illusione di crescita e miglioramento di un intero comparto attraverso il miglioramento di noi operatori della progettazione. Forse ci siamo tutti illusi: io che vi scrivo, voi che avete aderito alla nostra proposta associativa, noi che ci siamo costituiti in comunità di pratiche.
Abbiamo creduto che, se proprio competizione aveva da esserci tra le nostre missioni organizzative, la si potesse giocare sull’acuminatezza delle idee, sulla qualità intrinseca delle proposte, sulla chiarezza e completezza dei nostri testi , sul rigore e il nitore dei processi logici che vi erano descritti, sulla professionalità degli estensori.
Balle, purtroppo. Mentre noi ripetevamo questi ritornelli, dentro e fuori le aule di formazione, nei luoghi di confronto e nelle discussioni informali, altri semi analfabeti criminali allevati a scuole ed accademie un tantino diverse dalle nostre si spartivano la già magra torta degli stanziamenti sociali. Noi eravamo lì presi in disquisizioni, al postutto oziose, su validità e tenuta dei modelli epistemologici della progettazione, su metodologie del ciclo di vita di progetto e quadri logici, mentre i Buzzi e i Carminati passavano direttamente alla cassa, con tanti saluti al quadro delle competenze del progettista sociale e al Project Life Cycle Management.
Je accuse! Se ciò è potuto accadere, è stata anche colpa nostra. Forse ci siamo attardati sin troppo in sottigliezze e bellurie intellettuali, perdendo di vista la sostanza delle cose. Che è questa, mi pare: se la progettazione sociale è pratica e leva di cambiamento – lo ripetiamo in continuazione, ed è peraltro detto in ogni scialbo bigino o dispensa che la progettazione è lo strumento che formula, inquadra, programma e regola il cambiamento sociale, circoscrivendolo nei suoi obiettivi e risultati – se quindi, passatemi la forzatura, le missioni organizzative che le nostre progettazioni inquadrano puntano proprio ad essere “il movimento reale che abolisce lo stato delle cose presente” (Marx, L’Ideologia Tedesca), qualunque sia la direzione che vogliano imprimere alla società, allora dobbiamo darci atto che la progettazione sociale non può ridursi a gesto intellettuale, fronzolo accademico, svolazzo colto e raffinato. Dobbiamo avvertire di nuovo ogni proposta come la punta di diamante di una autentica, e quindi tracciabile e riconoscibile, forza sociale che si mette in movimento, contro forze antagoniste che pure dovrà far qualcosa per contrastare.
I Carminati, i Buzzi, questo principio l’hanno afferrato; noi, forse, un po’ meno. Loro non hanno idee, hanno invece appetiti molto voraci, che ben si saldano agli interessi di gruppi diversi dai loro; i vivi sopra e i morti sotto, per usare le loro parole. Questa è pratica criminale, ma di indubbio e incontrastato successo laddove gli altri interessi si fanno puntiformi, si riducono alla minoranza di uno, si condannano all’afonia, all’autoreferenza, alla monotonia estrema delle mission-e-vision-dell’organizzazione, tutte diverse eppure tutte uguali, mercificate, sottoposte a un logoramento estremo prima razionale e logico, poi perfino lessicale e semantico, ad uso del cosiddetto mercato-dei-donatori: «Siamo di fronte ad evidenti sintomi di decadenza globale. … la crisi dell’essere con, dell’essere al mondo insieme. L’aspetto fondamentale è la solitudine che ognuno regala a se stesso. La comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole fino alla riduzione al singolo individuo»: nel 1994 Giuseppe Dossetti descriveva con questi cupi toni la notte civile in cui ci inoltravamo. Se riduciamo noi stessi, le nostre missioni e le nostre progettualità a questo pulviscolo organizzativo è fatale che il potestà, il pascià, il vice capo cesso di turno possa con infastidito gesto accantonarle, a favore di interessi più coagulati e distribuiti dei nostri. Il ché, occupandoci noi in definitiva di comunità e collettività, ci scaraventa in un evidente paradosso.
E dunque che faremo? Smetteremo di fare formazione, abbandoneremo la ricerca metodologica, accantoneremo il nostro progetto di definizione delle competenze del progettista sociale? Niente affatto. Però metteremo, è quel che propongo, maggiore stress su quelle competenze di animazione comunitaria, di mobilitazione comunitaria, di advocacy di interessi sempre più ampi e vasti che non quelli della singola iniziativa associativa. Focalizzeremo di più e meglio il significato e il ruolo “politico” che la progettazione sociale, o l’operatività sociale e il terzo settore tout court, esercitano nel mediare e ricomporre gli interessi collettivi, sempre alla faticosa ricerca di una più progredita sintesi di quella già raggiunta e costituita. Collocheremo sempre più al centro – metodologico, ideativo, operativo – il beneficiario, le strategie del suo ingaggio, del suo coinvolgimento, della sua attivazione. Immaginare disegnare e realizzare progetti-ponte, tra l’irrinunciabilità attuale della nostra iniziativa sociale e dei nostri servizi e un approdo (quando?) in cui le responsabilità sociali, che per ora necessariamente vicariamo, saranno restituite a una comunità complessivamente più comunità.
Ho la fortuna come presidente di aver conosciuto personalmente quasi ciascuno di voi. Dico quasi, perché nel frattempo siamo cresciuti, e dalla piccola comunità di 20 soci degli inizi oggi siamo quasi cento (93 per la precisione, più quattro soci in fase di ammissione), e presenti in tredici regioni. Se accosto uno ad uno i vostri volti in un mosaico ideale, ho l’immagine di un paese decente, di un terzo settore decente, di persone e in filigrana di organizzazioni che destano stima e rispetto, e non meritano gli schizzi di fango che, inevitabilmente, ci pioveranno in testa. Raggiungiamoli insieme questi obiettivi, costruiamoli insieme questi ponti, istruiamoci, agitiamoci, organizziamoci. Partecipiamo. Non ci limitiamo ad aprire, individualmente, l’ombrello. Adelante!
Il Presidente
Antonio Finazzi Agrò