* Testo della relazione introduttiva tenuta da Antonio Finazzi Agrò in occasione del Convegno del 17 maggio 2019 presso l’Università Roma Tre, Facoltà di Economia e Commercio
Care socie e cari soci,
a rendere estremamente difficoltoso, e insieme appassionante e suggestivo, il percorso compiuto per adottare la norma tecnica che oggi presentiamo, non è tanto il sostantivo “progettista”, quanto l’aggettivo “sociale” che lo accompagna. Chi sia infatti e di cosa si occupi un progettista, indipendentemente dal suo ambito di intervento, è su un piano strettamente intuitivo preliminarmente chiaro. La progettazione è ciò che “sta sotto” alle attività, è ciò che ne costituisce la struttura predittiva, riflessiva e di costante verifica in base alla quale il nostro lavoro non si affida giorno per giorno al caso o all’improvvisazione, ma si dota all’inizio e si attiene in seguito a una regola. Come ripeto spesso nei nostri corsi, raccordandomi a un’insigne tradizione filosofica, progetto e progettazione sono radicati in noi come “esistenziali”, strutture cioè che chiarificano l’esistenza umana.
Ma invece cosa intendiamo con “sociale”? Sociale è evidentemente una di quelle parole ombrello, a estensione massima e intensione minima, che parrebbe fatta apposta per gettare nel massimo imbarazzo teorico chiunque si attenti a pronunciarla. Con buon indice di approssimazione diciamo che per sociale intendiamo il modo in cui le società funzionano, si articolano al proprio interno, organizzano i propri scambi endogeni e quelli con le altre società, individuano scopi e obiettivi collettivi, elaborano prospettive e valori di riferimento, perseguono il massimo possibile di benessere equamente distribuito. Se sul piano delle politiche pubbliche è invalso l’uso di identificare, soprattutto per esigenze di carattere amministrativo, il sociale in opposizione ad altri ambiti di intervento, primo fra tutti il sanitario, noi dobbiamo confessare che su un piano più originario la coppia sintagmatica di riferimento da cui il sociale trae l’insieme delle sue significazioni è “sociale” versus “individuale”. È sociale tutto ciò che tocca una comunità di persone, e soprattutto ciò che investe il fondamento che queste persone tiene insieme.
Così inteso il termine e l’oggetto del nostro lavoro, è comprensibile la difficoltà in cui ci ha posto l’elaborazione di una “Norma tecnica per l’attività del progettista sociale” che, a prima vista, potrebbe nutrire pericolose ambizioni imperialistiche, sconfinanti in una dottrina politica (d’altro canto la colpa non è tutta nostra; cominciò Aristotele, che per significare che l’uomo è un animale socievole e sociale scrisse che è uno “zoon politikòn”).
Prudentemente perciò abbiamo ritenuto di restringere il campo, ancorandoci per il possibile ai sostantivi “progettista” e “progettazione”, concentrando cioè l’analisi soprattutto sugli aspetti procedurali, in parte condivisi con altre pratiche professionali, che concernono il lavoro su questo scivoloso oggetto. Dobbiamo pertanto avvisare chi nella norma cercasse una definizione di riferimento del nostro lavoro “lato objecti” che resterà inevitabilmente deluso: la norma standardizza e disciplina soprattutto le procedure minime – perché questo è uno standard: la definizione di quanto è il minimo da farsi per ottenere risultati – necessarie a imprimere una direzione di marcia effettuale alle nostre iniziative. Ciò non significa tuttavia che questa nube luminosa che è il “sociale” non abbia retroagito e non abbia condizionato la nostra riflessione, e in un senso piuttosto preciso: in ultima analisi siamo consapevoli che oggetto e scopo ultimo del nostro lavoro è il “cambiamento sociale” ovvero, per riprendere le parole di Mauro Magatti in un recente e stimolante saggio, il “cambio di paradigma”. Di questo in definitiva ci occupiamo: di favorire, influenzare, accompagnare e stimolare il cambiamento sociale verso la maturazione – qui la Costituzione italiana, che è per noi un’importante riferimento assiologico, ci viene in soccorso – delle condizioni più favorevoli possibili per il pieno sviluppo della persona umana, in una relazione di reciprocità e pari dignità sociale con tutte le altre persone. Da ultimo, poiché anche le opinioni pubbliche, nonostante le apparenze, evolvono, si è maturata la percezione che questa relazione di reciprocità va allargata necessariamente all’ambiente che ci circonda, se si intende compiere fino in fondo questo processo di umanizzazione, e dunque anche di questo la progettazione sociale è chiamata ad occuparsi.
Consegue, da questa impostazione di principio, che la progettazione sociale non incrocia in modo accidentale il pubblico interesse e l’interesse generale; né è anzi tutta intessuta e vi è profondamente embricata, e pertanto ogni sforzo di evoluzione di tale pratica mira in realtà a espandere l’area del bene comune. Il progetto sociale per come lo abbiamo definito è “un’attività complessa sistemica e organizzata, partecipata da più soggetti, orientata a produrre risultati apprezzabili e direttamente finalizzata all’interesse generale. Nel progetto sono identificati i beneficiari e i destinatari, gli obiettivi e i risultati, il contesto territoriale, le attività, le metodologie, le tempistiche e le correlate risorse umane, strumentali ed economiche”. Questo basterebbe a spiegare perché, subito all’indomani dell’emanazione della L. 4/2013, abbiamo avvertito come un’urgenza attivare un processo di codifica concertata della professione e sua regolamentazione, proprio in quanto è nostra convinzione che si tratti di una funzione di speciale rilevanza pubblica, in quanto coinvolta nella maggior parte dei processi decisionali, tanto pubblici quanto privati, relativi alla programmazione e attuazione di politiche e interventi di welfare nei più diversi ambiti: sociale e socio assistenziale, socio sanitario, culturale, formativo ecc.
Ora però, detto che la progettazione sociale si occupa di strumentare il cambiamento in vista dell’interesse generale, resta che, sul piano delle fenomenologie concrete del nostro lavoro, normalmente il progettista sociale si occupa di “micro cambiamenti di paradigma”: variazioni ben minime dello stato di campo, relative a singole comunità, circoscritti territori, ridotte minoranze, ambiti del tutto determinati, cause perspicue di distorsioni e problematiche ben più ampie e multifattoriali. Di tutto questo il progettista è consapevole: sa che non potrà avere effetto alcun cambiamento sociale macro se, dal basso, singoli nodi alla portata delle risorse cognitive strumentali e umane, tutt’altro che illimitate, di cui dispone non vengono sciolti. E tuttavia è altrettanto consapevole che il cambiamento sociale, quello vero ed integralmente auspicabile, è un combinato disposto di molte forze sociali, di molte soggettività, di molte spinte e controspinte simultaneamente in atto, di cui egli non controlla che una minima parte. E contemporaneamente sa che il gioco sociale è influenzabile ed è, di fatto, costantemente influenzato. Se dobbiamo pensare cos’è il nostro lavoro, lo paragoneremmo a quello della piccola porzione di timone, il trimtab postulato da Buckminster Fuller come metafora della leadership sociale, che prende iniziativa, fa perno su di sé e alleandosi con le forze della fluidodinamica fa virare il timone e quindi l’intero bastimento, indipendentemente dalla sua stazza.
Mi sia concesso di dire che è proprio in queste caratteristiche che si traccia il discrimine più profondo tra il lavoro del progettista sociale ed altre pratiche professionali di project management, per altri versi profondamente apparentate tra loro, come dalle relazioni dei colleghi senz’altro emergerà. Ciò che è intrinseco alla progettazione sociale è il suo costante sbilanciamento sul contesto esterno all’organizzazione che ne regola l’attuazione, e su soggettività e attori non contenuti né per principio contenibili nel perimetro di controllo dell’organizzazione; ne consegue che il numero di variabili e fattori esterni da prevedere e tentare di organizzare in vista degli scopi progettuali, comunque elevati in qualunque ambito di project management – in cui infatti, non casualmente, è stato sviluppato un set di procedure e competenze dedicate al risk management – è nel nostro settore potenzialmente astronomico. Che fare di fronte al disarmante quadro che ho sinteticamente tracciato? Arrendersi all’imprevedibilità dei comportamenti e all’assetto largamente indeterministico dei fenomeni sociali? Questo è, a parer mio, il caso serio: una risposta di tipo debole o debolista alla questione, cioè di resa all’impredicibilità dei contesti, metterebbe in mora non solo la nostra proposta di norma, ma qualunque tentativo di modellizzazione della progettazione sociale. Noi abbiamo ritenuto che in realtà proprio da questo assetto di cose emerga un surplus in termini di esigenza di codifica metodologica, e non un minus: è proprio perché nel nostro ambito il governo è strutturalmente più complesso che occorre maggiore metodologia, e non di meno. Deve sorprendere in proposito, ed effettivamente ne siamo sempre stati sorpresi, che nella quasi totalità dell’offerta formativa sulla progettazione sociale, con un pizzico di orgoglio possiamo dire ad eccezione di quella che abbiamo sempre proposto ai nostri soci, manchi qualunque cenno, pur minimo, al risk management e alla gestione delle variabili esterne e contestuali. È forse un riflesso del fatto che, per come la funzione della progettazione sociale è stata sin qui metabolizzata nei nostri mondi, l’attenzione prevalente della formazione è sulle capacità di attrazione di risorse, cioè su strategie di marketing progettuale, più che non di gestione effettuale ed orientata a scopi del progetto?
Qui si annida la seconda ragione per cui riteniamo sia valsa la pena metter mano a una norma tecnica; in verità si tratta di una ragione coincidente col nostro stesso scopo istitutivo, come Associazione Italiana Progettisti Sociali: qui si tratta di rendere trasparente a sé stessa, e conseguentemente consapevole chi la svolge, una pratica che all’ingrosso coinvolge non meno di 16.000 professionisti in Italia (è una stima estremamente conservativa, basata sull’ultima rilevazione ISTAT che conta 336mila organizzazioni non profit attive in Italia). Si tratta di lavoratrici e lavoratori, volontarie e volontari che, ne abbiamo contezza diretta, svolgono la propria funzione in una condizione di spinto anonimato professionale, e in contesti che spesso percepiscono in termini ambigui la progettazione sociale, confondendola o sovrapponendola ad altre pratiche naturalmente correlate – si pensi alla figura del fundraiser ugualmente ancora sprovvista di una sua definizione organica – e tuttavia distinte sia per scopi che per metodologie proprie.
Non è qui mio compito entrare nel merito di queste metodologie, che si è tentato di sintetizzare nella norma e che più nel merito esporrà Jamil Amirian. Qui a me tocca al più richiamare lo spirito che, dall’interno, ha ispirato la nostra lettera, e che è sintetizzabile in questo principio: il lavoro della progettazione sociale per definizione non è mai solitario, ma piuttosto vive e respira sempre in rapporto ad altri, tanto che di tipo comunitario sono molte delle competenze che abbiamo codificato. Questa è la nostra croce e delizia: il nostro è un gioco intrinsecamente relazionale, costituito di raccordi e alleanze con le forze vive del nostro contesto, con quanto di vitale permane nelle nostre società. Allearsi con ciò che inferno non è: chi e cosa, nell’inferno, non è inferno, e farlo durare e dargli spazio, direbbe il Calvino de Le Città Invisibili. Si tratta di unire donne e uomini, le loro forze e il loro mezzi, con proprietà di metodi, orientandoli a un futuro possibile, e il compito non è rinviabile né delegabile perché, a ben vedere, questo è il lavoro della speranza: con le parole di Ernst Bloch, ne Il Principio Speranza che tante volte ho citato nei nostri Corsi base:
L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono.