L’intera evoluzione degli standard metodologici a cui fa riferimento la progettazione sociale, in Italia e in Europa, possono essere condensati in un’unica propensione di massima: elaborare e rendere esplicito in modo sufficientemente rigoroso, cioè in termini predittivi, il razionale tra attività e risultati maturati (output) e effetti desiderati di medio e lungo termine (outcome). Questo tentativo di connessione asincrono e diacronico, tra l’attualità dell’azione sociale e la prospettiva di una evoluzione possibile, evidente nella Theory of Change, è però presente già nel GOPP (Goal Oriented Project Plan) e nei suoi strumenti, primo tra tutti il Logical Framework Approach rispetto al quale tutti i nuovi approcci, inclusa la Theory of Change, sono evidentemente debitori.
Il punto di cui è questione, al centro della nostra riflessione, è articolare meglio e in termini meno grossolani e ingenui delle vulgate correnti la natura stessa di questo razionale, che ha tutto il carattere della predizione storica. Ora, chi ha dimestichezza con la ricerca storica, anche su piccola scala, sa che è già molto giungere ad accertare i “fatti”; regredire dai fatti ai processi storici che li hanno determinati significa quasi sempre addentrarsi nel campo del congetturale, certamente non accessorio all’indagine, ma decisamente indisponibile alle scienze obiettive, per l’enorme numero delle variabili potenzialmente in grado di imprimere un determinato corso agli eventi.
La progettazione sociale versa in una situazione simile: non correla il presente al passato, ma prova a imprimere una direzione di marcia al futuro, scegliendo nel groviglio dei fatti sociali alcune variabili, e tentando di influenzarle per dettare una direzione di marcia allo sviluppo delle comunità che formano il suo campo di intervento. È possibile assegnare rigore a questo insieme di scelte, senza abbandonarle all’arbitrio e al capriccio dell’operatore sociale? Crediamo di sì, a patto però di riconoscere che un contesto sociale/comunitario non è mai un oggetto neutro di intervento, di cui ci si possa formare un’idea obiettiva, ma un costrutto complesso, un orizzonte in cui anche l’operatore sociale è già sempre inserito, e che dal punto di vista delle scienze obiettive non è mai interamente risalibile.
La materia è troppo vasta e densa per essere anche solo accennata in un articolo; qui ci limiteremo a tratteggiare il primo dei tratti teorici caratteristici di qualunque teoria del cambiamento – e i progetti sociali altro non sono che teorie del cambiamento – che è il carattere di mediazione, riservandoci di approfondire altri principi in interventi successivi. Cominciamo col dire che i progetti si distinguono dai servizi non solo per il carattere di iscrizione dei primi rispetto ai secondi in un preciso arco temporale, ma per una demarcazione più profonda, che è nel carattere di “mediazione” che li connota rispetto ai servizi: mentre i servizi correlano in termini binari bisogni codificati a risposte standardizzate con totale immediatezza e senza alcuna pretesa di alterare il quadro delle variabili che ha determinato quei bisogni, ma agendo secondo un paradigma quasi behavioristico, del tipo stimolo/risposta, i progetti invece, tutti riconducibili al paradigma crisi/cambiamento, si strutturano come strategie centrate sulla categoria di “mediazione”: un dato assetto sociale, anche micro-sociale, non soddisfacente può evolvere a patto di una dinamizzazione di tutti o alcuni dei suoi elementi intermedi, secondo una catena di risultati potenzialmente disposti in successione tra l’attore dell’intervento e il cambiamento finale desiderato, che ricorda la semiosi illimitata di C.S. Peirce1. Questa è la proposizione prima di ogni progetto. Un progetto sociale è essenzialmente un medium, cioè un insieme di mezzi accessibili e tra loro coordinati atti a connettere dimensioni non naturalmente reciproche, anzi in partenza in tensione tra loro, una delle quali, quella coincidente col cambiamento che si intende ottenere, ha inevitabilmente, se messa in rapporto col proprio termine medio, il carattere di un “noumeno”, o di un interpretante finale per riprendere le categorie di Umberto Eco. Intendiamo dire che i risultati, cioè probabilmente la componente specifica più rilevante e impegnativa in un progetto, sono appunto «mezzi», medium tra l’uno e l’altro dei termini in tensione o, se si vuole dire la cosa in termini semiotici come qui si sta facendo, interpretanti del cambiamento finale2. Come tutti i termini medi, è sempre possibile escogitarne uno più prossimo al soggetto che agisce e intraprende in direzione del cambiamento: dato un risultato, è sempre possibile individuare un secondo risultato che lo «media», che lo approssima cioè verso un ambito passibile di maggiore controllo da parte dell’imprenditore sociale, ed è esattamente così che funziona l’ideazione progettuale, con la sua propensione, talvolta anche eccessiva, all’individuazione di risultati intermedi via via più granulari.
———————————————————————————————————————————————————-
Note:
1Cfr. Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano, 1975, p. 104
2Proviamo ad abbozzare solo alcune delle coppie antinomiche caratteristiche rispetto alle quali il progetto si pone come termine medio:
- Il sé organizzativo e il contesto sociale (l’altro): il progetto e la sua platea di risultati e attività si configurano anzitutto come termine medio tra un’intenzionalità caratteristica dell’imprenditore sociale e i beneficiari, cioè come luogo di scambio sociale e co-influenzamento tra attori, beneficiari e portatori di interesse;
- L’ambito del già noto e l’ambito dell’ignoto: il progetto è un luogo euristico, un processo esperto orientato alla scoperta di soluzione nuove a problemi insaturi quanto alla loro definizione, verso un cambiamento che non è né codificato del tutto né interamente prefigurabile all’atto dell’ideazione progettuale, almeno non al livello di perspicuità al quale è possibile invece enumerare i risultati;
- L’ambito del controllo e l’ambito del non controllo: il progetto è un luogo di progressiva capacitazione ed emancipazione del “beneficiario” dai servizi, e di progressiva cessione di controllo dall’imprenditore sociale ai beneficiari e alle comunità: man mano che si dipana la catena dei risultati, quelli più avanzati in direzione del cambiamento si sposteranno sempre più nella sfera di controllo altrui.
Una risposta
Sono molto interessata ai vostri webinar e corsi in progettazione sociale . Vorrei ricevere maggiori informazioni grazie