Tra le molte identità in continua evoluzione, quelle di profit e non-profit rappresentano due tra le più dibattute e analizzate.
Tecnicamente separate per moltissimi anni, in corrispondenza di un modus operandi e di finalità diametralmente opposte, da circa un decennio si sono sempre più affiancate e confrontate alla luce di impatti sociali spesso allineati e convergenti, seppure nelle diverse modalità di realizzazione.
Se da un lato il settore profit ha smesso di essere solo il “portafogli” del settore non-profit e se, dall’altro, il settore non-profit ha smesso di essere cronicamente piegato al compromesso per ragioni di carenze tecniche ed economiche, è il caso di analizzare più da vicino cosa questo abbia generato a livello identitario per le due realtà.
Dal punto di vista ontologico ormai da qualche anno i campi di azione del profit e del non-profit si sono parzialmente sovrapposti, basti pensare alla legge di riforma della Cooperazione (L.125/2014) e alla riforma del Terzo Settore che ha inserito fattispecie di diritto particolarmente avanzate come l’Impresa Sociale che, pur non potendo generare profitto, utilizza modelli e strumenti di libero mercato in maniera spesso equivalente a quella di startup o imprese mature. Egualmente, l’introduzione delle Società Benefit, aziende profit che, per statuto, perseguono finalità ed impatti di bene comune, ha avvicinato al mondo del profit a ragionamenti di sostenibilità integrata legati indissolubilmente al business, e non più di questo ancillari.
Dal punto di vista operativo impatti riconducibili a questo progressivo avvicinamento si ripercuotono – ad esempio – nella rendicontazione sociale, processo narrativo annuale che restituisce evidenza di quanto generato per comunità ed ambiente, tanto dal profit che dal non-profit. Oppure nella partecipazione combinata tra profit e non-profit a bandi per il sociale, fino a qualche tempo inimmaginabile al di fuori di logiche legate a sponsorship o partnership filantropiche. A corollario di questo allineamento, vi è la gestione delle risorse umane, che sempre di più incrociano percorsi di carriera sia nel profit che nel non profit, andando a definire un orizzonte particolarmente innovativo di talent acquisition ragionata non più solo sulle performance economiche o sociali dell’organismo di destinazione, ma sulla combinazione tra purpose e soddisfazione economica. Come a dire che non è più solo lo stipendio o solo la bontà della missione a motivare la scelta di un neo-assunto, ma entrambe le cose simultaneamente.
Da questo scenario rimane escluso un punto fondamentale da approfondire, ossia come questo processo di avanzata ibridazione possa mutare strutturalmente la natura genetica delle due entità. Se si sia cioè in presenza di una commistione de facto, peraltro non ancora ben accompagnata a livello procedurale burocratico (ancora avvezzo a divisioni rigide e statiche) o se si tratti di un percorso temporaneo. È ancora presto per trarre conclusioni su questo aspetto, o prevedere sviluppi simbiotici di lungo periodo ma, certamente, il fenomeno va monitorato e accompagnato nelle sue forme più innovative di intersezione: sarà da queste dinamiche ancora inesplorate che si genererà quell’innovazione sociale che tanto necessitiamo in tempi imprevedibili e complessi come quello che stiamo vivendo.
Una risposta
Vorrei richiamare l’attenzione su una caratteristica che, oltre alle finalità e al modus operandi, distingue le no-profit: nell’impresa no-profit manca l’attesa di profitto per chi conferisce capitali. Quindi, pur muovendosi come enti privati nel contesto di una economia di mercato, non devono remunerare il capitale investito da chi possiede i mezzi di produzione. E’ una situazione molto particolare che favorisce il re-investimento degli utili in azienda e sostiene l’occupazione. Le no-profit si inseriscono in un contesto capitalistico portando un modo diverso di concepire i rapporti economici in ambito lavorativo.
Certamente le no-profit svolgono attività di grande utilità sociale, ma questo non è sempre un aspetto positivo, soprattutto quando al Terzo Settore sono delegate attività e servizi che dovrebbero e potrebbero essere realizzati dallo Stato. Resta invece questo aspetto rivoluzìonario: la priorità data al lavoro anziché ai mezzi di produzione