Riuscirà il Terzo Settore a compiere la sua “transizione” da settore residuale e compensativo schiacciato tra stato e impresa ad attore primario della co-generazione e ri-generazione sociale, in una fase di tumultuoso “cambio di paradigma” dei modelli di scambio sociale determinati dalla crisi economica del 2008? È questa la domanda chiave introduttiva delle Giornate di Bertinoro per l’Economia Civile, tenutesi il 13 e 14 ottobre 2017.
Come si vede, si tratta di una regressione della domanda e del suo fuoco di indagine dagli aspetti strettamente tecnico giuridico che concernono la cosiddetta Riforma del Terzo settore – pur da non sottovalutare, se si pensa che la transizione giuridica verso nuove fattispecie è ancora di fatto in fieri, finché non saranno adottati i non pochi decreti attuativi che dovranno precisarne il perimetro d’esercizio – ad aspetti più decisivi legati alla capacità effettiva del Terzo Settore, in fase di ri-forma, di dare a sua volta nuova forma ai processi sociali che attraversano, compaginano o scompaginano il Paese. È insomma in questione la capacità complessiva del comparto di articolare una normatività sociale senza la quale ogni iniziativa legislativa è destinata a restare lettera morta…
La transizione, figura chiave del nostro tempo e delle sue crisi antropologiche e sociali prima e più che economiche e finanziarie, evoca con potenza la figura dell’interregno, cara a Gramsci:
La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati (A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Q 3, §34, p. 311).
Ogni cosa pare sospesa in questo interregno, nel quale il presente, mentre catastrofizza le forme e i modelli produttivi, organizzativi, politici e sociali precedenti, non riesce a produrre un’adeguata interpretazione del proprio ambiguo sviluppo. È ad esempio, il caso del legame sociale, figura repressa per un trentennio da un modello economico e culturale basato esclusivamente sull’individuo e i suoi consumi, e che oggi, misurata che se ne è la radicale insostenibilità dopo la crisi del 2008, torna a porsi molto ambiguamente come questione di fondo. In che termini infatti si affermerà il rilancio del legame sociale? Prevarrà la sua declinazione in termini difensivi/offensivi, come proposto non solo da Trump negli Stati Uniti ma da una intera filiera di imprenditori della politica in Europa e in Italia, o prevarrà una sua declinazione finalmente inclusiva? Dall’esito di questa alternativa dipenderà l’affermazione di uno dei due modelli concorrenti di scambio sociale, candidati a succedere al modello di scambio finanziario/consumerista dell’ultima fase trentennale, ormai irriproducibile: un modello del tipo sicurezza contro efficienza, nel quale il patto sociale implicito, marcatamente autoritario, è articolato in uno scambio di quote crescenti di efficienza produttiva ed esistenziale (la produttività si allargherà ad inedite incursioni ed intrusioni nel privato, in una onnicomprensività resa possibile dall’evoluzione digitale) in cambio di sicurezze identitarie ed economiche; e un secondo modello, ancora possibile, del tipo contribuzione contro sostenibilità, nel quale invece il patto sociale si articola intorno a una maggiore co-operazione di tutte le parti e gli attori nella catena di produzione del valore sociale, come l’evoluzione tecnologica digitale rende possibile e alcune forme di sharing economy annunciano, in cambio di sostenibilità, e cioè umanizzazione dei luoghi e delle relazioni sociali, riconciliazione dei tempi di vita, di cura e di lavoro, durevolezza delle forme organizzative e produttive, rigenerazione dei loro fattori.
È chiaro che il Terzo Settore, che secondo Magatti ora più che mai deve definirsi altrimenti che “terzo settore”, è chiamato in questa fase storica a giocare tutto il proprio peso sulla bilancia sociale per far prevalere la seconda delle alternative. Ed è anche chiaro che questa scommessa è molto antecedente alla riforma giuridica del terzo settore, giacché, semmai la fonda. Ci riuscirà? Ci riusciremo?
Piccola postilla non polemica: come ho richiamato in un breve intervento rivolto ai relatori del Convegno, in questa fase l’enfasi a proposito di modelli di welfare, di economia civile e impresa sociale è tutta sull’impatto e i suoi modelli di valutazione. Ciò sia da un punto di vista normativo (la valutazione di impatto diverrà probabilmente un obbligo per molte organizzazioni), sia dal punto di vista della vivacità degli studi proliferati in questo campo. Bene, ottima cosa. Allocare energie sulla valutazione, che come dice Zamagni è “dar valore” prima che giudicare, ci aiuterà senz’altro a comprendere meglio ciò che funziona e ciò che invece può e deve essere migliorato. Si tratta tuttavia sempre di un di poi; la valutazione, momento eminentemente riflessivo del lavoro sociale, è come la filosofia: arriva sempre troppo tardi e, come la nottola di Minerva, inizia il suo volo sul far del crepuscolo. Forse qualcosa di più e di meglio andrebbe fatto in termini di ricerca, applicazione, indagine e modellizzazione sulla fase “aurorale” di ogni iniziativa di welfare o impresa civile, coincidente con la fase della progettazione sociale. Sarebbe ora di riconoscere che i modelli di riferimento teorici di cui disponiamo sono datati, e spesso rozzamente deterministici. Che i predittori di successo dell’intervento iscritti, poniamo, nell’approccio del quadro logico sono debolissimi, e buoni al più per la fase di valutazione ex ante. Su questo punto ha già richiamato la nostra attenzione Jamil Amirian, in un suo recente post. Non sarà che il dramma della progettazione sociale è essere rigidamente confinata in un paradigma amministrativista? Cioè detto più rozzamente: non è che tutta la questione della progettazione sociale consiste in un ristretto, e quindi economico, numero di criteri, cogenti o meno il piano della realtà, coi quali selezionare tra proposta e proposta? Non ci aspettiamo certo che sia il decisore istituzionale a sciogliere questo nodo. Non può né ha le competenze per farlo. Ma dalla ricerca e dal dibattito scientifico è indubbio che ci aspetteremmo qualcosa di più.
* Questo articolo è debitore in particolare della relazione tenuta a Bertinoro il 14 ottobre da Mauro Magatti, poi approfondita attraverso la lettura del suo recentissimo saggio Cambio di Paradigma (M. Magatti, Cambio di Paradigma: uscire dalla crisi pensando il futuro, Milano, Feltrinelli, 2017)