Ripercorriamo, in forma di dialogo, il penultimo evento di Mentoring, sulla progettazione formativa. Hanno partecipato i soci Jamil Amirian, in qualità di mentor, e le socie Paola Casadei e Manuela Virtuoso.
Le domande di Paola:
A Quali ambiti si rivolge la formazione? Come Individuare il gruppo dei beneficiari? Formazione come attività che da elementi concreti? Formazione volontari? Posso partire da beneficiari extracomunitari per farli coinvolgere in azioni a restituzione sociale? Chi li può formare?
Le domande di Manuela:
Se penso alla progettazione formativa mi vengono in mente due criticità principali:
quanto nell’analisi dei fabbisogni formativi prima e di conseguenza nell’ideazione e realizzazione del percorso formativo poi, non ci si soffermi in maniera adeguata sul livello motivazionale. Cerco di spiegarmi meglio, nonostante chi più chi meno conosce l’importanza della motivazione sui risultati, spesso non si sa bene come implementare questo aspetto nella progettazione formativa;
Di conseguenza mi riallaccio alla seconda, la sfida di utilizzare strumenti (es il bilancio di competenze, test delle ancore ..) o anche altri di cui ancora non ho conoscenza, contestualizzandoli però in base agli obiettivi, ai destinatari e all’organizzazione nella quale si è chiamati ad operare. Quando una progettazione formativa costituisce una progettazione sociale? La prima risposta che mi viene in mente è: quando c’è un’intenzionalità nel produrre dei cambiamenti sociali che abbiamo un impatto positivo, che siano orientati a dinamiche di inclusione sociale, di innovazione sociale, di riconoscimento sociale, ma anche di responsabilità sociale.
Jamil: Mi sembra che le nostre questioni girino intorno a due dubbi fondamentali. La progettazione formativa è progettazione sociale? E il secondo dubbio è, come coinvolgere i destinatari in modo da tenere dentro la motivazione, da garantire la centralità delle persone? Dunque, la progettazione formativa fa parte della progettazione sociale? La mia risposta è no, ma hanno pratiche e campi in comune. Secondo me la progettazione formativa è una metodologia, la progettazione sociale è una prospettiva di azione, che include un posizionamento nelle problematiche sociali. La progettazione formativa può quindi essere, con specifiche condizioni, una delle forme della progettazione sociale. Uno dei presupposti della progettazione sociale è che deve contribuire all’interesse pubblico; la progettazione formativa non sempre è in questa direzione (vi sono tanti progetti di formazione che sono finalizzati unicamente a scopi economici; ad esempio, se io formo operatori di borsa o agenti di vendita).
Manuela: Concordo sulla tua analisi. Ci tengo però a mettere in evidenza quanto spesso in progetti di placement e/o di outplacement che prevedano percorsi formativi ( in cui in misure diverse sono stata coinvolta), i destinatari vengano messi nella condizione di formarsi senza tuttavia avere un progetto di reale emancipazione, crescita e sviluppo. A tal proposito mi sembra opportuno porre l’accento su quanto in tali percorsi formativi non ci si possa limitare a ragionare solo a livello nozionistico, dato che, a mio parere, non si può parlare di progettazione formativa in generale e nella progettazione sociale in particolare, se essa non conduce ad una trasformazione e ad un ripensarsi.
Jamil: Questa è certamente una dimensione fondamentale, pensare ad una progettazione formativa che presidi le soggettività e le esperienze di ogni persona, spesso in condizioni di difficoltà. La formazione intelligente non è quella che colma carenze ma che contribuisce a far pensare, cambiare approccio alla propria situazione, tramite anche gli apprendimenti, che non si limiti ad essi ma accompagni la loro integrazione nell’esperienza e nella progettualità personali. L’attenzione agli individui e al significato che assume la formazione proposta nella loro esperienza e nel loro progetto di vita professionale (spesso confuso o spezzato) è centrale in tanti percorsi che si rivolgono a utenze disagiate, come ex detenuti, disoccupati etc..
Tuttavia non è un tratto esclusivo della formazione sociale, né distintivo. La formazione spesso include l’accompagnamento individuale anche in altri settori (come quello aziendale profit) o per ruoli non direttamente volti al bene comune. Inoltre, a volte la formazione nel sociale è rivolta a persone che non presentano disagi marcati o che non chiedono di ripensare la propria progettualità personale (pensiamo alla formazione per i volontari), quindi può essere un aspetto non centrale.
Paola: Che rapporto tra la progettazione formativa e la rendicontabilità sociale della formazione, ovvero quanto la formazione può essere uno strumento e un oggetto che rende più incisivo (e appetibile da parte di un potenziale donatore) un progetto sociale? Vi sono alcuni corsi di formazione che sono veramente degli interventi sociali. Penso a quegli interventi di formazione che mirano a trasferire competenze es. di gestione delle finanze familiari, verso famiglie povere che per ottenere un sostegno devono impegnarsi, tra le altre cose, a partecipare attivamente alla formazione e poi far diventare subito pratica ciò che hanno appreso.
Jamil: Il tema è quello del rendersi conto che, laddove la progettazione formativa è anche sociale, non si progetta un percorso formativo per un gruppo di destinatari, ma per un sistema sociale e un territorio che condivide interessi. Il tema è includere l’attenzione a questi interessi all’interno della propria progettazione. Pensiamo al fund raising e a un corso di formazione. Proviamo a immaginare un esempio. In un certo contesto si ipotizza un percorso formativo per soggetti disoccupati; certamente potrebbe apparire che sia un progetto per l’interesse di quel piccolo gruppo di persone senza lavoro. Ma in realtà un gruppo di persone che ritrovano la propria strada, che trovano un lavoro, che possono gestire la propria vita, sono persone che non sono a rischio di più grave emarginazione, di debilitazione fisica e depressione, di accesso a percorsi di disagio (alcolismo, tossicodipendenza), o anche di illegalità, con costi per la collettività e per il contesto, non solo economici. Lavorare per l’inclusione è un’attività nell’interesse di tutti, dei commercianti di un quartiere, delle famiglie, dei servizi sanitari e sociali…la formazione può a tutti gli effetti essere una forma di azione sociale, quindi può essere sostenuta da tutti, anche economicamente. Questa operazione di ampliamento della prospettiva, di rimessa in linea e in coerenza degli interessi molteplici e dei valori di tutti, è sotto la responsabilità del progettista, o meglio della sua componente più sociale, più ampia e sistemica.
Manuela: In che modo quindi l’analisi dei fabbisogni contribuisce a tenere dentro le motivazioni dei partecipanti e l’interesse pubblico?
Jamil: In ambito della progettazione sociale l’analisi dei fabbisogni assume una specificità molto definita.Certamente non può ridursi ad una rilevazione delle competenze mancanti o attese. Se vogliamo formare immigrati rifugiati, o ex detenuti, o volontari, o educatori per minori, la questione di cosa pensano della propria attivazione e del proprio futuro, di come sono arrivati al percorso formativo, di come si immaginano e si aspettano dalla formazione, di quanta motivazione hanno e che valore attribuiscono alla formazione, anche ai rapporti che si attiveranno, è centrale. L’analisi dei fabbisogni è quindi uno spazio di riflessione in cui questi aspetti possono essere espressi. Ma come abbiamo detto, la progettazione sociale è sistemica, e sistemica deve e può essere l’analisi dei fabbisogni. Con questo intendo dire che occorre interrogare il territorio rispetto al processo che vogliamo attivare, comprenderne le attese e gli eventuali problemi, le difficoltà che vi sono state con quei destinatari, le risorse attivabili. La formazione fine a se stessa rischia di essere controproducente se non prova a creare un sistema che ne traduca le potenzialità in opportunità. Quindi andranno sviluppate anche relazioni con gli stakeholders, alimentate alleanze e investimenti, comprese le possibilità di inclusione dei soggetti formati. Ad esempio, posso svolgere un percorso formativo per soggetti disoccupati in stato di isolamento sociale. Se non mi interrogo e non valuto le effettive potenzialità del territorio di stabilire legami utilizzabili per l’avvio di percorsi di reinserimento, la formazione può essere inutile, l’ennesima esperienza di rottura con il sistema sociale. Se utilizziamo il modello della progettazione sociale, ciò significa passare dall’analisi del territorio all’animazione di legami e coprogettazioni rispetto alla formazione, condividendo con tutti gli stakeholders responsabilità e favorendo la loro partecipazione fin dall’inizio della progettazione.
Riflessioni a seguito del confronto:
Manuela: ripercorrendo i nostri ragionamenti, mi è apparso maggiormente chiaro quanto la progettazione formativa in ambito sociale rappresenti un’opportunità, ma allo stesso tempo motivo di “responsabilità professionale”. Cerco di spiegarmi, se da una parte infatti fornisce l’opportunità di ampliare il panorama entro cui poter operare, dall’altra ci chiede di essere maggiormente responsabili e di assumere piena consapevolezza su quanto sociali non devono essere soltanto le tematiche e le intenzionalità, ma anche la prospettiva, la scelta degli strumenti, la centralità delle dinamiche relazionali territoriali. Fondamentale diventa predisporre processi di lettura e insieme di trasformazione del contesto fin dalla fase di analisi, passando per la costituzione di una rete in cui tutti gli attori sociali siano coinvolti, attraversando le attività da mettere in campo, fino a raggiungere i piani dei risultati e delle valutazioni.