1. Quale progettazione sociale
Abbiamo più volte affrontato questa questione, apparentemente semplice, ma per noi tutt’ora di fondamentale importanza.
La progettazione sociale è l’attività volta a favorire la collaborazione per produrre valore sociale, un impegno che deve quindi essere consapevole e competente, perché orientato ad una finalità precisa, che ne diventa il criterio di verifica.
Operare come progettisti sociali comporta avere un’ipotesi del cambiamento atteso e del processo di coinvolgimento delle persone, delle organizzazioni, dei sistemi e livelli di governo, ad esso orientato. Comporta quindi anche un’azione di verifica delle attività messe in campo e dei miglioramenti che le nostre scelte hanno promosso. Comporta lo sforzo a condividere processi di pensiero, criteri di validità, sistemi logici, principi organizzativi, modelli di conoscenza.
Operare come progettisti sociali è quindi un modo di essere operatori sociali, non soltanto una funzione o una professione.
Ritorniamo, per così dire, sulle fondamenta, perché ci sembra un problema molto attuale, ci sembra anche che la progettazione sociale possa essere una risposta a tante delle questioni che incontriamo nella società contemporanea, in cui le radicalizzazioni e la difficoltà di gestione delle informazioni su tematiche di grande rilevanza, stanno spesso portando a conflitti non gestibili e non gestiti, in cui si screditano posizioni opposte dalle nostre (attribuendo intenzioni avverse), senza approfondire in modo sistematico i processi che fondano le decisioni collettive.
Il problema di agire per un interesse comune è, a nostro parere, notevolmente sottovalutato nella sua complessità e rilevanza.
Si opera molto comunemente come se si ritenesse sufficiente una buona intenzione, o una passione per il bene pubblico, una grande motivazione, o anche una finalità molto importante perché poi, in qualche modo, si attivi impegno collettivo, il cambiamento si realizzi e le persone siano soddisfatte, quelle che partecipano all’iniziativa e quelle che ne hanno un vantaggio.
Invece no. Tutte queste componenti sono necessarie, ma serve abilitarle in modo coerente e sistematico, altrimenti si rischia inconcludenza e frustrazione, basti pensare al motto “fantasia al potere”, così potentemente evocativo quanto implicitamente privo di alcuna responsabilità realizzativa, così passivizzante e arreso all’impotenza.
La progettazione sociale invece richiede responsabilità e volontà di migliorare le cose, e forse per questo è continuamente trascurata, perché richiede dedizione, non solo slancio e intenzioni.
Facciamo alcuni semplici esempi, reali. Un gruppo di associazioni deve svolgere un incontro formativo per l’avvio di un progetto: l’incontro si svolge con una serie di presentazioni, esercitazioni, scambi liberi, discussioni di gruppo…si realizza così una giornata piacevole e interessante. Ma che senso ha avuto? Quali ipotesi hanno organizzato le attività? Quali erano gli obiettivi? Sono stati raggiunti e come? Se le persone si dicono “soddisfatte”, lo sono per un motivo coerente e utile, o perché hanno rivisto vecchi amici? Sono soddisfatte, per un motivo connesso ad un reale percorso di cambiamento, o per una gratificazione unicamente emotiva?
Il più delle volte queste semplici domande sono assenti nel pensiero di chi gestisce iniziative che coinvolgono le persone, o sono presenti in modo molto marginale. Purtroppo questo disinteresse non riguarda unicamente azioni limitate e di limitata importanza, anzi pare che maggiore sia la rilevanza delle decisioni da assumere, minore sia il pensiero progettuale che si mette in atto.
Pensiamo ad una guerra lunga decenni: investimenti economici e di sacrificio della vita di tantissimi civili, oltre che militari. Per legittimare pubblicamente una guerra, ci si basa spesso su un evento con rilevante impatto emotivo (un attentato, un atto ostile…), piuttosto che su un sistema di valutazioni. Ma quali sono le motivazioni e le analisi a premessa? Quali gli obiettivi? Quali le risorse necessarie? Quali i risultati? Vi è ragionevolezza nell’insieme di queste componenti e di queste scelte? Si potevano immaginare alternative, con gli stessi obiettivi, a costi minori? Cosa è stato appreso? Quali sono stati gli errori e come evitarli in futuro? No, anche in questo caso non sembra che i principi del pensiero progettuale siano considerati, anzi.
Pare evidente come la progettazione sociale abbia a che fare strettamente con i processi democratici, perché per poter decidere occorre avere consapevolezza dell’insieme degli elementi che motivano una certa scelta, visti nelle loro relazioni, avere cioè un processo di pensiero sistemico e progettuale.
Soluzioni semplici (“chiudiamo i porti agli immigrati” o “apriamo i porti”), richiami valoriali (“prima il lavoro”, “includere le diversità”) hanno un’utile funzione di attivazione emotiva, molto meno utili sono a comprendere realmente la sensatezza delle scelte e la sostenibilità delle azioni.
Forse è eccessivo individuare un aspetto critico dell’attuale stato della democrazia nella scarsa propensione delle persone a pensare in modo progettuale, ma ci pare evidente come impegno e consapevolezza del proprio potere di cambiare siano inscindibili, e che probabilmente l’incapacità di progettare i cambiamenti sociali è una delle componenti centrali nella disaffezione di tanti verso la partecipazione.
Le persone hanno bisogno di vedere connesso il proprio impegno ad un cambiamento che possono immaginare, desiderare e soprattutto vedere realizzato, hanno bisogno di avere chiarezza nelle ipotesi che orientano le decisioni e le iniziative collettive.
La progettazione sociale (come sistema di questioni e decisioni) costituisce quindi una fondamentale risorsa per valutare e partecipare alle direzioni di politica a tutti i livelli.
È una risorsa, per fare un semplice esempio, per affrontare con competenza l’abitudine della comunicazione politica di proporre un caso per il tutto, e motivare scelte sulla base di eventi singoli.
In una campagna elettorale di qualche anno fa, un ruolo preminente lo ebbe il racconto della condizione di una donna che viveva ampiamente agiata, solo di sussidi statali, provocando indignazione (si parla ancora di emozioni…). La storia risultò poi falsa, ma il problema non riguarda solo la veridicità di questo caso limite, quanto il suo utilizzo a fini politici.
Analizzato con l’approccio della progettazione sociale verrebbero in mente tante domande per evitare confusioni categoriali, che invece sembrano la norma: si tratta di un caso unico? Quali dati generali ci sono su questo tipo di situazione? Quali sono le motivazioni che l’hanno prodotta? È un problema di leggi (politica) o di controllo (gestione amministrativa)? È un problema locale o nazionale? Quali sono le azioni che potrebbero evitare questi casi e quali le ipotesi alla base di queste azioni? Come potremo verificare l’efficacia di queste iniziative?
Queste sono alcune, elementari, domande che ogni operatore che lavora nel sociale si pone per qualsiasi situazione, che ogni progetto sociale deve necessariamente porsi anche per decisioni molto limitate, e che potrebbero venire in mente a chiunque, obbligando anche la comunicazione politica (e in generale i processi democratici) a progredire.
Riteniamo che una maggiore consapevolezza del pensiero progettuale sia una delle premesse più importanti, non tanto per promuovere partecipazione sociale e politica (che non è un bene in sé, visto i danni che una partecipazione cieca ha prodotto nella storia), quanto per renderla soddisfacente e realmente orientata al progresso: diffondere cioè, nelle persone l’abitudine a partecipare competentemente alle scelte e alle direzioni assunte da chi ha responsabilità del bene pubblico.
Pensiamo che il progresso della società sia strettamente connesso alla trasparenza, condivisione, sensatezza e fondatezza delle scelte collettive e che questo sia un tema complesso, ovvero in cui interagiscono molteplici dimensioni, che richiedono approfondimenti e non soluzioni contenute in slogan.
Creare processi di collaborazione richiede l’esplicitazione di tante questioni, e un pensiero sistemico e progettuale, che, a partire dai fondamenti valoriali comuni, pianifichi azioni coerenti e conseguenti. Ma, è da chiedersi, questo è sufficiente? E come mai sembra così difficile procedere secondo un pensiero progettuale, a livello sociale?
No, apprendere ed utilizzare i principi della progettazione sociale non è sufficiente, poiché i comportamenti e le motivazioni delle persone hanno anche, se non prevalentemente, origine emotiva.
2. Quale psicoanalisi
Una fondamentale risorsa per far luce su questi processi è la psicoanalisi, che costituisce un immenso corpus teorico, impossibile da sintetizzare. Per quello che serve qui, si può ricordare come la psicoanalisi si ponga la finalità di descrivere i processi di funzionamento della mente, con l’ipotesi che seguano logiche inconsapevoli, in particolare quelli emotivamente connotati.
L’ipotesi, che in realtà è più una constatazione, è che le emozioni determinino in larga parte i comportamenti, quindi parlare di psicoanalisi significa discutere dei processi che motivano i comportamenti. La tesi fondante della psicoanalisi è che il comportamento delle persone è collegato a processi di elaborazione inconsci, che determinano i vissuti personali.
Anche se la rappresentazione comune della psicoanalisi rimanda ad una serie di contenuti (simbolismi sessuali, archetipi e relazioni familiari…), in questa sede è rilevante sottolineare la centralità dei processi con cui la mente si rapporta alla realtà e orienta il comportamento umano.
Ogni persona (come ogni gruppo) fa esperienza della realtà attraverso una elaborazione che determina il suo vissuto, che quindi ha destini soggettivi e non predeterminabili. La psicoanalisi non sostiene l’esistenza di rapporti causa effetto, ma si occupa di modellizzare i processi mentali con cui ognuno si rapporta al mondo esterno.
Quali sono questi processi? Su questa risposta, a partire dalle prime ipotesi di Freud, si sono divise le varie scuole, ma si può sottolineare un aspetto su cui c’è convergenza, ovvero che si tratta di processi simbolici e di sostituzione, per cui un fatto o un oggetto reale è sostituito con un altro “simbolico”, che non ha un rapporto diretto e concreto con esso, e che ha una connotazione emozionale e motivazionale.
Il comportamento delle persone è quindi determinato da vissuti che sono esito della sostituzione della realtà con oggetti mentali simbolici, generali e non specifici.
Esaminiamo alcune rilevanti conseguenze di questa tesi. Intanto la sostituzione del mondo esterno con il mondo interno. Questa ha una evidente conseguenza nei rapporti umani, perché quello che a qualcuno sembra un fatto oggettivo, qualcosa che è evidente, ad un’altra persona sembra molto meno evidente o inesistente, in altri termini, la percezione della realtà è un dato soggettivo. Questo processo riguarda, nella teoria della psicoanalisi, soprattutto i significati emotivi; ogni persona sviluppa un vissuto emozionale secondo dinamiche proprie, e conseguenti motivazioni e comportamenti soggettivi. Un evento che suscita a qualcuno una certa emozione e vissuto, ad un altro può suscitare un vissuto molto diverso.
Il senso comune tende a eliminare l’operazione soggettiva di significazione emozionale, tende a vedere un rapporto diretto tra fatti e vissuti, popolando la convivenza di una serie di rappresentazioni di eventi dalle conseguenze emotive note e date. La nascita di un figlio è ritenuta motivo di gioia per i genitori, e di sentimenti amorevoli, un regalo è ritenuto motivo di gratitudine, un decesso è motivo di dolore, una festa è un’occasione di divertimento e così via….sembrano strane, al senso comune, le ipotesi poste e indagate dalla psicoanalisi, ovvero che può darsi che un figlio sia motivo di odio, di infelicità, o un regalo motivo di rabbia, o una festa motivo di paura, mentre è proprio il processo di significazione emozionale soggettivo il tema dell’approfondimento psicoanalitico.
Anzi, il senso comune si è attrezzato a considerare alcuni processi emozionali normali e altri anormali e patologici: se ho un’insofferenza per un figlio nascente non è normale, se sono affettivamente legato a qualcuno e desidero rompere quel rapporto non è normale, se sono disponibile con i miei dipendenti e loro sono arrabbiati con me non è normale, e così via…
Ovviamente assumere l’esistenza di “emozioni normali” è piuttosto azzardato, non tanto sul piano della sua utilità (può essere ad esempio che qualcuno voglia eliminare una “anormale” paura dei viaggi in aereo), ma sul piano della convivenza, laddove non sempre le persone sono disponibili a riconoscere e accogliere l’anormalità del proprio mondo emozionale, anzi…
Prendiamo un altro aspetto dei processi di elaborazione emozionale, ovvero la generalizzazione, prendere un oggetto o un evento come se fosse il tutto. È ovviamente una operazione cognitiva fondamentale, anzi il pensiero è proprio la costruzione di categorie unificanti, ma quello che la psicoanalisi evidenza è la dinamica emozionale di questo processo.
Pensiamo ad un processo di generalizzazione abbastanza comune, il rapporto con l’autorità. Se una persona vive un conflitto con l’autorità, tenderà a generalizzare questo vissuto a tutte le figure che hanno un ruolo di potere. Questa notazione rimanda, a nostro parere utilmente, a quanto osservato nella comunicazione politica (e spesso nei processi decisionali collettivi), ovviamente sviluppatasi sulla base di meccanismi mentali riconoscibili: parlare di un solo caso prototipale consente alle persone di accedere emozionalmente alla categoria, motivando le decisioni su piani generali.
Parlare pubblicamente di una persona, ad esempio, che truffa il sistema previdenziale e vive di sussidi ingiustificati, suscita in alcuni o tanti ascoltatori, un processo di generalizzazione emozionale, per cui tutti quelli che ricevono sussidi sono vissuti inconsciamente come truffatori, e quindi si avverte il desiderio di modificare la regola generale. A causa di un modo di funzionale della mente, ogni altro ragionamento, ogni verifica, ogni valutazione complessiva ed ogni articolazione perdono di attrattiva, e si regredisce ad una semplificazione tanto insensata, quanto emozionalmente appagante.
3. Progettazione sociale e psicoanalisi: discipline complementari
Che rapporto possiamo utilmente individuare tra progettazione sociale e psicoanalisi?
Una capacità progettuale e di analisi del contesto, una visione e una pianificazione, un processo organizzativo e sistemi di verifica e miglioramento, sarebbero probabilmente utili al movimento degli psicoanalisti, così come forse anche uno sviluppo maggiore di una mediazione culturale, disciplinare e professionale, mediazione che è tra le specifiche funzioni della progettazione sociale.
Ma scriviamo per un contesto allargato, per cui forse più interessante focalizzarci su altro, ovvero in che modo la psicoanalisi potrebbe essere, o è, funzionale alla progettazione sociale.
Il primo fondamentale aspetto riguarda proprio la possibilità di distinguere tra dati di realtà e vissuti, distinzione su cui in ambito di progettazione sociale non si ritrova adeguata consapevolezza.
Vi è cioè, una costante problematica nel rapporto tra fatti, vissuti e comportamenti, che, se non adeguatamente trattata, rischia di mettere in crisi i processi di cambiamento desiderati.
Tra gli assunti della teoria della progettazione sociale c’è l’utilizzo delle sequenze causali: un certo comportamento problematico (ad esempio, lo svolgimento carente della funzione genitoriale) è ritenuto effetto di una certa situazione (inadeguata competenza genitoriale), sulla quale si può agire (percorso di parent training), per modificare il comportamento in oggetto.
Secondo la teorizzazione psicoanalitica questa sequenza è, per lo meno, ingenua, se non semplicemente falsa e insostenibile. Nessun fatto o cambiamento oggettivo produce nessun comportamento, se non tramite la mediazione dei processi di elaborazione emotiva, che devono quindi essere gestiti consapevolmente e competentemente. Per continuare con il nostro esempio, secondo il modello psicoanalitico, l’assunzione di una responsabilità genitoriale in larga parte dipende da come i genitori vivono il proprio ruolo, molto più di quanto e cosa sanno fare, e non può essere, quindi, trasmessa con un percorso formativo. E nei vissuti dei genitori intervengono i processi di elaborazione emotiva che ogni singolo genitore, in modo del tutto specifico, mette in atto, che non possono né essere previsti né, tantomeno, orientati.
Nessun comportamento e nessun vissuto può essere causato: essere convinti del contrario (convinzione comune) può essere motivo di grande frustrazione, rabbia e delusione.
Infatti, così come può essere che qualcuno viva un decesso senza il dolore “socialmente atteso”, o provi paura per una festa, questa polisemia e varietà di vissuti riguarda anche il lavoro sociale e le attese che lo caratterizzano. Può capitare, ad esempio, che i destinatari di un progetto che ha come obiettivo il miglioramento della loro condizione, vivano il progetto stesso e gli operatori con sentimenti di rabbia e rivendicazione, così come può capitare che percorsi che abbiano come finalità l’autoimprenditorialità e l’autonomia suscitino ulteriore dinamiche di dipendenza.
Questo processo interessa, ovviamente, tutti i soggetti coinvolti nella progettazione sociale e tutte le relazioni che si sviluppano. In una riunione tra partner di progetto vi fu un conflitto su una decisione rispetto ad una distribuzione economica che andava molto oltre le semplici motivazioni di interesse, con reciproche accuse di malafede o avidità, motivate da processi, inconsci, di elaborazione emotiva.
Torniamo un attimo ad un altro dei fondamenti della progettazione sociale, che abbiamo già citato, ovvero il rapporto tra azione e conoscenza, secondo cui ogni iniziativa orientata al cambiamento deve essere fondata su una rilevazione coerente di informazioni e inserita in un impianto progettuale. Nella pratica, capita di osservare come molte decisioni pubbliche trovino motivazioni in eventi singoli, su cui c’è stata una ampia partecipazione emotiva, piuttosto che su analisi preventive; ci riferiamo ad esempio ad interventi di innovazione dei treni successivi ad un incidente, o iniziative benefiche successive ad un evento tragico.
Letta dal punto di vista psicoanalitico, la comunicazione politica non è altro che un continuo riferirsi ad emozioni che semplificano e scotomizzano la realtà. Il processo per cui la mente utilizza il caso singolo per significare una categoria più ampia è costantemente presente nelle emozioni che attraversano la progettazione sociale; un solo evento violento, ad esempio, può screditare una struttura che si occupa di minori disagiati, se ha un’eco emotiva molto rilevante, indipendentemente da qualsiasi valutazione realistica dell’insieme dei comportamenti dei minori nel tempo e dei risultati di anni di attività.
4. Conclusioni
Sì, ne siamo consapevoli. C’è un interesse alla progettazione sociale molto collegato al reperimento dei finanziamenti, all’elaborazione di proposte, allo sviluppo di servizi e iniziative.
Ma, come continuiamo a sottolineare, gli strumenti concettuali ed operativi e le funzioni tecniche, sono solo un mezzo per supportare un fine molto importante, ovvero la collaborazione per migliorare la società.
Chi si occupa di progettazione sociale non può operare per peggiorare il proprio contesto, ad esempio consentendo il reperimento di finanziamenti ad una struttura che agisce in modo disonesto o inefficace. La progettazione sociale è sempre a servizio della volontà di migliorare il contesto.
Ma che tipo di servizio svolge? Esplicita alle persone, e tra le persone, quali sono i processi da realizzare per produrre un miglioramento, avendo una fondamentale funzione di motivazione e di promozione della collaborazione. Nell’infrastrutturare i processi collaborativi, la progettazione sociale sviluppa la fiducia reciproca, l’investimento nell’impegno etico e il progresso sociale. In tal senso, può offrire un contributo, se sviluppata con competenza, di grande importanza ad ogni contesto e situazione in cui vi sia interesse alla realizzazione di finalità pubbliche.
Come abbiamo visto, la progettazione sociale si trova a confrontarsi con gruppi e soggetti che sono emotivamente coinvolti, e ipotesi riduzionistiche, che ignorino alcune dinamiche mentali, rischiano di essere controproducenti, agendo nella direzione opposta a quella desiderata.
Sarebbe importante, ci sembra, che la società valorizzasse maggiormente l’apporto della progettazione sociale, non unicamente come espediente tecnico, ma come insieme di principi e processi a servizio della collettività.
E sarebbe altrettanto importante che nell’attività di progettazione sociale si valorizzasse molto di più quanto la tradizione psicoanalitica ha prodotto, come preziosa risorsa per comprendere ed agire nelle dinamiche di convivenza.
Superare posizioni parziali, punti di vista autoreferenziali, visioni e interessi soggettivi, promuovere intersoggettività, riconoscimento reciproco, condivisione di potere e sinergie, superare situazioni di impotenza e staticità, ci sembra che la progettazione sociale e la psicoanalisi abbiano davvero molto in comune, pur con strumenti diversi. E ci sembra che potrebbero costituire, nella loro complementarietà, tra le più rilevanti ed efficaci risposte a tanti problemi della contemporaneità.
Una risposta
Provo a integrare l’articolo con alcuni esempi, più che per esplicitare ulteriormente la tesi, per mostrarne meglio le rilevanti conseguenze pratiche, utilizzando la psicoanalisi come verifica delle ipotesi di alcuni progetti sociali.
Se apriamo google, e digitiamo “studenti visita Aushwitz”, compariranno tantissimi resoconti di viaggi organizzati per portare gli studenti in visita, con l’ipotesi, che questo serva a “non ripetere gli stessi errori”. Si può organizzare questa iniziativa senza una teoria della mente e del comportamento? No. Chiunque metta intenzionalmente in relazione un’azione e un comportamento (in questo caso, degli studenti futuri adulti) ha una ipotesi del nesso tra essi.
Visitare i campi di concentramento, secondo questa proposta, ha una funzione preventiva di convinzioni, posizioni, atteggiamenti e comportamenti razzisti, violenti e disumani. È, pare evidente, una ipotesi psicologica.
La psicoanalisi (almeno in una certa modellizzazione) sostiene che questa ipotesi sia falsa. Conoscere non produce cambiamento nel comportamento, in modo diretto e prevedibile. Piuttosto, il comportamento dei ragazzi dipende da come essi vivono l’esperienza, e la elaborano secondo processi simbolici emotivi.
Può darsi, ad esempio, che alcuni ragazzi vivano queste esperienze “educative” in termini conflittuali, controllanti, colpevolizzanti, cui reagire. Può darsi che alcuni li vivano (inconsapevolmente) come atti di potere violento, o come espressione di un mondo adulto che nega la loro autonomia. Può essere che li vivano come imposizione valoriale omogeneizzante le loro personalità in formazione, cui contrapporsi per affermare la propria visibilità, magari assumendo altri (dis)valori.
Altro esempio. Ho reperito su internet informazioni su un progetto (finanziato per un costo di oltre un milione di euro) che si basa su una teoria psicologica simile a quella che sembra motivi le visite formative ai campi di concentramento.
Secondo questo progetto l’attività fisica ha un effetto benefico sul comportamento patologico di dipendenza degli studenti (dipendenza dal gioco, dalle sostanze etc…), effetto che può essere di riduzione o eliminazione della dipendenza stessa. Si propone quindi di organizzare “percorsi di pratica sportiva su larga scala” come azione di disassuefazione dai comportamenti di dipendenza.
Si propone, letteralmente, che “la conoscenza di e l’incoraggiamento a stili di vita sani, la sperimentazione di pratica sportiva” abbiano effetto nei comportamenti degli studenti, evitando l’insorgere di dipendenze.
Se seguiamo il modello della psicoanalisi anche questa equazione (come nesso di consequenzialità), è falsa.
La dipendenza, secondo la psicoanalisi, è più riconducibile ad una funzione emotiva soggettiva, simbolica, connessa al modo in cui una persona attribuisce senso alle proprie esperienze, soprattutto nelle relazioni affettive significative, alla realizzazione di sé, al senso di fallimento, ai processi di riconoscimento, appartenenza e identificazione, ad esempio con gruppi di soggetti che condividono la stessa dipendenza.
La pratica sportiva in sé, così come qualsiasi altra pratica in sé, non ha nessuna possibilità di agire su queste dimensioni emozionali, così come la conoscenza e l’incoraggiamento a stili di vita sani, perché la dipendenza non è effetto della non conoscenza o del non coraggio.
Rispetto al caso di specie, forse un indicatore dell’ingenuità dell’ipotesi proposta dal progetto, potrebbe essere anche dalla diffusione della dipendenza da doping nello sport, per non parlare della dipendenza dallo sport stesso.
Se teniamo presente cosa la psicoanalisi ha permesso di comprendere della mente e del comportamento, una grande parte delle ipotesi alla base dei progetti sociali ci sembrerà più simile ad una farsa, utile solo al mantenimento dei sistemi di potere (anche culturale) che gestiscono i finanziamenti.
Forse, sono gli operatori sociali, più che i progettisti sociali, che spesso si preoccupano di recuperare il senso e l’utilità degli interventi, nonostante quanto proposto nei progetti (che sono costretti a replicare certi modelli culturali, tanto riduttivi quanto dominanti).
L’ alternativa a queste semplificazioni (e un maggiore e migliore utilizzo nella progettazione sociale delle teorie psicoanalitiche, è davvero una questione aperta ed interessante, che come operatori potremmo iniziare ad approfondire.