Introduzione
Obiettivo di questo articolo è discutere il rapporto tra progettazione sociale e finanziamenti. Si tratta di un tema curiosamente meno trattato in ambito teorico, laddove si ritrovano riflessioni principalmente sulla metodologia e sulla funzione del lavoro sociale organizzato per progetti, mentre quasi mai è dato incappare in un’analisi sistematica e approfondita relativamente al rapporto con i finanziatori e i finanziamenti.
Si assume cioè che il Terzo Settore e la progettazione siano qualcosa di distinto e indipendente, nelle proprie caratteristiche operative, dai processi di assegnazione delle risorse economiche, che sono eventualmente visti come strumentali a supportare le iniziative che gli operatori, in autonomia, sviluppano.
Questo articolo ha origine in una premessa opposta a questa idea, ovvero dalla rilevazione che la progettazione sociale, sebbene originariamente nata sulle iniziative volontarie della cittadinanza attiva, nel tempo sia stata fortemente ancorata al sistema dei finanziamenti, fino ad esserne pesantemente condizionata.
Si osserva, sempre come premessa, che il rapporto tra processi di finanziamento e processi di progettazione non segue modalità immutabili e strutturali, e anzi che le scelte nel definirne le caratteristiche possono avere un ruolo determinante nel promuovere una direzione o un’altra rispetto al ruolo, alla crescita e alle dinamiche organizzative del Terzo Settore.
Premessa storica
La progettazione sociale, intesa come pratica organizzata e professionale, è nata quando è apparso evidente che i sistemi dei servizi pubblici non erano in grado di rispondere adeguatamente ai bisogni di una società sempre più contraddistinta dalla problematicità della convivenza.
Nel momento in cui è diventata palese non solo l’inadeguatezza o l’assenza dei servizi sociali offerti a fronte di nuove necessità e di nuove sensibilità, ma la più generale incapacità delle istituzioni di dialogare con la diversità e il disagio di ampie fasce della popolazione, il Terzo settore ha proposto una risposta spontanea e autonoma ai bisogni non intercettati, presentandosi come laboratorio in cui far emergere consapevolezze, definire e sperimentare modelli di intervento e, soprattutto, attivare percorsi di dialogo e di inclusione a favore chi restava ai margini della società.
Un ruolo che ha attribuito al Terzo Settore anche la funzione di vigilanza critica e proposizione verso le stesse amministrazioni, distinguendosi da esse per la capacità di sperimentare le nuove soluzioni attraverso la costruzione di processi decisionali partecipativi e fortemente animati dal basso.
L’istanza implicita è quella della promozione di sistemi di convivenza ad alta distribuzione di potere, collaborativi e capaci di innovarsi attraverso la piena condivisione degli strumenti di cambiamento.
A partire dagli anni ’80, a fronte all’esplosione di nuove domande di aiuto (tossicodipendenze, immigrati, malati di HIV, minori a rischio, senza fissa dimora…) e alla crescente e manifesta inadeguatezza delle risposte offerte, le istituzioni hanno presto identificato e qualificato gli ETS quali potenziali partner per la realizzazione flessibile, economica ed efficace di servizi, iniziative, strutture, che potevano essere sostenuti con finanziamenti e convenzioni.
Gli anni ‘90-2000 hanno visto la progressiva definizione di identità giuridiche relative ai ruoli e alle funzioni attribuiti alle organizzazioni del TS, che ha accompagnato e reso possibile un processo di ripensamento del sistema del welfare, strutturando una pratica che vedeva la pubblica amministrazione nel ruolo del decisore e i soggetti del Terzo Settore come esecutori, in un assetto di parziale privatizzazione e apertura a dinamiche di mercato dei servizi sociali.
La situazione attuale
Se tale riconoscimento ha impresso nel Terzo Settore un determinante impulso verso il rigore metodologico, il rispetto di criteri di efficienza ed efficacia e la qualità degli interventi, ha anche ricollocato implicitamente l’operato del no profit all’interno di quell’impostazione politica dalla quale il movimento aveva inteso contrapporsi alla sua nascita.
Il Terzo Settore, come detto, è nato per intercettare e dare voce alle persone che in modo particolare mancavano di potere, quindi maggiormente in pericolo di non essere incluse nei sistemi socio-politici locali. Sono le categorie di persone meno capaci di esprimere richieste o pressioni, sia perché condizionate da svantaggio sociale, sia, soprattutto, perché il loro disagio è spesso esito di una frattura con il contesto territoriale in cui vivono, oppure, più semplicemente, è invisibile. La politica e i servizi da essa offerti, di contro, fanno riferimento e si conformano alle aspettative dei cittadini in quanto elettori di un mandato politico, che non sempre hanno né una chiara coscienza e conoscenza delle problematiche sociali, né interesse ad affrontarle.
Di conseguenza, il potere decisionale rispetto agli interventi lo avranno prevalentemente soggetti che possono esprimere pressioni sull’opinione pubblica (tramite campagne comunicative), o, sull’amministrazione (tramite potere di influenzamento e lobbying), privilegiando gli interessi e le modalità di intervento di chi ha maggior peso politico o visibilità, non tanto secondo necessità sociali reali e logiche di azione fondate.
In questo, grande assente è la funzione politica, trasformativa e di contributo al progresso della società da parte del Terzo Settore che, nel ruolo di esecutore tecnico di volontà dell’amministrazione, ha indebolito il proprio ruolo di soggetto sociale.
Facciamo l’esempio di un’Associazione che si occupa di dipendenza dal gioco d’azzardo. Agli operatori è chiaro che tra le principali cause della diffusione della patologia è l’abnorme disponibilità di occasioni di gioco, così come dimostrano gli studi e le osservazioni. Ma che tipo di progetto (caratterizzato da “elementi di innovatività della strategia di realizzazione”, per dirla con i termini degli avvisi) può presentare, in un contesto istituzionale che più o meno direttamente promuove le sale da gioco, le scommesse e il gratta e vinci?
Così come potremmo facilmente rilevare le contraddizioni che devono affrontare ad ogni bando le associazioni che si occupano di tossicodipendenza, immigrati, etc…
Va sottolineato che non si tratta di stabilire un comprensibile punto di mediazione tra diverse posizioni, ma di interagire con un sistema di potere che, attraverso il meccanismo del finanziamento, può riproporre le medesime limitazioni all’intervento sociale che il Terzo Settore voleva sanare al suo nascere.
In particolare, la totale discrezionalità dei finanziatori e lo squilibrio strutturale di potere, mina alla radice la possibilità di investire in distribuzione di potere e condivisione decisionale, la diffusione di responsabilità e la partecipazione che sono tra le ragioni più profonde del movimento alla base del Terzo Settore.
Le conseguenze sulla progettazione sociale del Terzo Settore
Tratti funzionali a questa gestione economica e tipici della tradizione programmatica italiana, sono sistemi di finanziamento caratterizzati da orizzonti temporali brevi e da estemporaneità.
La scelta frequente, dunque, è quella di pubblicare bandi dettati dalle urgenze sociali più eclatanti e da inaspettate disponibilità di cassa, privilegiando la propria discrezionalità e il rapporto con la base del proprio consenso. Avvisi imprevedibili, che in due-tre mesi costringono operatori e progettisti ad approntare frettolose e improvvisate proposte. Inoltre, direzioni strategiche che vengono ribaltate ad ogni cambio dei vertici decisionali.
Attraverso i sistemi di finanziamento, si possono generare ulteriori pregiudizi per la qualità di un progetto. Come sottolineato, agli occhi del finanziatore il progetto tende ad acquisire la funzione di mero adempimento del proprio disegno politico o istituzionale (poco importa se l’agenda è quella di una Fondazione o di un’Amministrazione). Attraverso il bando si distribuiscono funzioni, ruoli, compiti di un programma predefinito. Non sono rari avvisi nei quali non solo si vincolano gli obiettivi, ma anche le metodologie, le logiche di intervento e i profili degli attuatori, o le attività stesse.
Come detto, il valore aggiunto della progettazione sociale è quello di offrire uno strumento metodologicamente rigoroso per mettere in dialogo diverse prospettive e diversi livelli decisionali, fondando la validità e i contenuti del progetto attraverso il processo dialettico tra richiesta e offerta di aiuto. Nella misura in cui il finanziatore rende superfluo il dialogo per la costruzione e la condivisione dell’interesse comune, predeterminando attraverso il bando le scelte di merito (e spesso di metodo) ammissibili, lo strumento progettuale cessa di essere funzionale rispetto alla propria principale e più distintiva valenza. Anzi, poiché l’apporto del TS agli interventi sociali si riduce alla flessibilità e convenienza economica dei propri operatori in favore dei servizi finanziati, la complessità dell’apparato progettuale diventa controproducente, vedendosi preferire modelli decisionali più snelli (convenzioni dirette, appalti, etc…).
Poiché le ipotesi sono estremamente limitate, sia sui tempi, sia sui contenuti dei bandi successivi (lasciando nel completo vuoto prospettico il futuro operativo), tipicamente ogni associazione piega le proprie esigenze in relazione a ciascuna opportunità, adottando una doppia lettura, quella aderente all’avviso (che svuota il processo di progettazione e il rapporto con l’Ente Finanziatore di ogni significato costruttivo) e quella interna, orientata al proprio modello di intervento. Questo sistema seleziona naturalmente professionisti e pratiche capaci di soddisfare i requisiti imposti dai finanziatori, in termini di efficienza economica, ma anche di contenuti scelti, di metodologie, orizzonti temporali e di visibilità dei risultati. Sono premiate scelte meramente esecutive, piuttosto che innovative, e laddove fossero valorizzate innovazioni, queste sono sempre soggette ad approvazione da parte dei finanziatori, secondo i criteri da essi indicati; il sistema seleziona, conseguentemente, strategie a breve termine, adempitive e orientate a ridurre i problemi, non alla trasformazione delle dinamiche di fondo.
Vi sono almeno 3 componenti che sono annullate o comunque scoraggiate.
La prima è la partecipazione; nei processi progettuali non è considerata un valore in sé, ma unicamente se può contribuire ai risultati attesi.
La seconda è l’innovazione, intesa sia come esplorazione di scelte metodologiche più efficaci, sia come identificazione di contenuti, temi, oggetti di lavoro più adeguati alle richieste dei destinatari e dei contesti.
La terza è la prospettiva trasformativa a medio/lungo termine. Si selezionano progettisti, pratiche di progettazione e dirigenti che sono capaci di recuperare i finanziamenti (spesso anche annualmente), piuttosto che avviare direzioni di crescita pluriennale e anche autonoma dai finanziamenti, soluzioni immediate ai bisogni, piuttosto che direzioni di cambiamento.
Queste conseguenze sono positive o no? Per rispondere alla domanda occorre tornare alla funzione che il sistema di politica/programmazione/progettazione è chiamato ad avere nella società. Questa funzione è di presidiare nel modo più efficace il processo di utilizzo delle risorse economiche per dare risposta alle richieste della comunità stessa, tramite il coinvolgimento degli operatori e dei volontari.
Quali sono e come si esprimono le richieste della comunità? In primo luogo, la comunità si esprime con il mandato politico, e nelle varie forme di mandato sociale che investono amministratori e decisori. In secondo luogo, si esprime tramite le interlocuzioni (analisi dei fabbisogni, confronti in itinere…) che i vari attori possono attivare. Si può osservare che la prima di queste modalità è indiretta (vengono scelti dei rappresentanti politici che difficilmente sono monitorati nelle loro scelte operative) e la seconda fortemente mediata dai soggetti coinvolti. Esprimersi con sufficiente certezza sulla volontà della società e delle comunità non è quindi facile.
Il modello che abbiamo descritto è adeguato ad una comunità che delega la propria volontà di realizzazione ai soggetti decisori, investendo loro di un ruolo e un potere che rende gli altri attori dei meri esecutori. Questo modello è certamente molto utile in tante circostanze, laddove occorre che gli operatori realizzino un servizio in gran parte predefinibile negli standard di prestazione e risultato. È invece disatteso un altro ambito di domanda, che si può identificare presente nella società e sempre più importante, e che riguarda dimensioni che sono attualmente svilite nell’attuale assetto. Le comunità non chiedono, si può affermare, unicamente servizi efficienti, ma contesti in cui riconoscere il proprio potere, in cui essere coinvolte nelle decisioni e essere soggetti dell’innovazione e miglioramento delle pratiche e delle direzioni di crescita.
Ripensare il sistema
Se si riconoscono queste differenti domande sociali, occorre innovare e adattare il sistema, introducendo criteri che orientino gli operatori ad esse. In primo luogo, valorizzando le iniziative che non restituiscano unicamente i risultati attesi, ma anche processi orientati al diffondere protagonismo, potere e innovazione. In secondo luogo, lasciando agli operatori la responsabilità di definire in autonomia i contenuti dei progetti e le metodologie, sulla base di finalità e anche risultati condivisi con i finanziatori. In terzo luogo, valorizzando e sostenendo le strategie pluriennali, non unicamente i progetti a breve termine, strategie che potranno riguardare sia trasformazioni del contesto e miglioramenti rispetto ai destinatari, sia la crescita degli stessi soggetti come operatori del cambiamento. Strategie, è importante sottolinearlo, non unicamente mission.
Finanziare una mission lascia infatti completamente insoluto l’impegno reciproco tra finanziatore e operatore su come questa mission può diventare azione trasformativa; occorre finanziare strategie e processi che siano capaci di adattarsi all’evoluzione della domanda, ai risultati e ai cambiamenti del contesto, e competenti nel definire orizzonti e pianificare azioni coerenti. Occorre finanziare un altro tipo di progettazione sociale.
In tal senso sarebbe utile un sistema di finanziamento che per un arco significativo di anni (5- 7, sul modello europeo), metta a disposizione finanziamenti sistematici e prevedibili. Gli attuatori avrebbero modo di pianificare direzioni continuative e qualitativamente adeguate, senza dover presentare proposte parziali o insoddisfacenti, perché tutti troverebbero più conveniente orientare gli sforzi sugli avvisi calendarizzati in seguito, adottando l’arco temporale più idoneo a massimizzare la probabilità di successo con progetti qualitativamente migliori.
Si tratta, in ultima analisi, di un problema metodologico: si tratta di chiedersi se e come, sul piano delle prassi, sia possibile avviare questa evoluzione, un problema che ci coinvolge tutti e una sfida, secondo noi rilevante, anche particolarmente appassionante, che come APIS stiamo provando ad affrontare.
Una risposta
Analisi interessante di un tema da tempo cruciale e “critico” nell’attività di progettazione sociale
Io credo che la deriva della dipendenza dai bandi nasca anche dall’idea, che ha avuto crescente peso a partire dagli anni ’80, che le organizzazioni che si occupano di problemi sociali debbano “stare sul mercato” e non dipendere da trasferimenti.
Concetto fragile fin dalle sue fondamenta…
Se invece i bisogni sociali trovassero risposte solide in risorse deguate, i bandi potrebbero essere strumento di innovazione o per fronteggiare improvvise emergenze o per sperimentare nuove metodologie e risposte, avendo quindi davvero una caratteristica di strumento per situazioni eccezionali.
Rimanendo comunque aperta la questione dell’imparzialità dei soggetti finanziatori e di processi decisionali e valutativi che quasi sempre lasciano ai margini proprio coloro che intendono beneficiare.